sabato 7 gennaio 2012

Il ruolo del padre e della madre





 
leti.dime@gmail.com
Maria Letizia Di Memmo
Counselor
Scuola di Counseling Relazionale
Prevenire è Possibile
http://www.prepos.it/



 Il ruolo del padre
           

 



Se volgiamo lo sguardo indietro nella storia, ci rendiamo conto come dalla rivoluzione industriale è iniziato il declino della struttura patriarcale e autoritaria della famiglia: dal “pater familias”, che aveva diritto di vita e di morte su moglie e figli, si è passati al padre-padrone fino al padre impiegato di oggi sempre più assente e sempre più lontano nell'educazione dei figli.
 



            Le lotte studentesche del '68 hanno decretato la “morte” del padre tradizionalmente inteso e la nuova generazione di genitori, pur di non ricalcare le orme del passato, ha addirittura abdicato al ruolo paternoeducativo e formativo, tanto che non si è ancora pervenuti a definire l’“identikit” del nuovo padre, mentre il ruolo materno è stato rinnovato e ridefinito.
 



            Gli studi psicologici e sociali pongono l’accento sul fatto che proprio la crisi del ruolo paterno tradizionale ha per effetto la “famiglia lunga”, in cui l'adolescente incontra grandi difficoltà a separarsi da un ambiente che sembra promettergli continuamente protezione, affetto e soddisfacimento dei bisogni.
 



            Pur riconoscendo la situazione di crisi rispetto al passato, tuttavia, nell'attuale società si possono intravedere tentativi da parte degli uomini di recuperare il proprio ruolo paterno. Gli stessi mass-media, persino la pubblicità, esprimono un nuovo modo di concepire il ruolo sociale di paternità, che demanda esclusivamente alla donna l'educazione e la gestione dei figli.
            Si assiste, in realtà, a una diversità di atteggiamenti nel ruolo paterno: c'è chi ritiene giusto riappropriarsi del ruolo di un tempo, imponendo la propria autorità; chi delega alla moglie l’educazione dei figli, limitandosi a svolgere solo funzioni di sostegno economico e c'è chi, invece, si mostra disposto a collaborare, a vivere di più in famiglia e a seguire la crescita dei propri figli.
            Al padre si richiede, in un primo momento, il dovere di sostenere indirettamente la madre nella creazione di un’atmosfera familiare serena e sicura da offrire al bambino, perché possa crescere sano e forte fisicamente e psicologicamente. In seguito, egli dovrà far sentire direttamente il suo influsso e orientare il figlio a principi, leggi e obbligazioni morali mediante propri atteggiamenti concreti nei confronti della vita, del mondo, nelle relazioni con gli altri; secondo la visione freudiana, egli avvia la formazione del Super-io.
            Il padre ha il compito, quindi, di dare al figlio sicurezza emotiva, di aiutarlo ad apprendere il controllo di sé attraverso l’insegnamento del valore della rinuncia e dell’esercizio della pazienza,per avviarlo in autonomia alla dimensione nel mondo e al rispetto delle regole sociali. Condizione indispensabile perché i figli sviluppino una coscienza morale e si distacchino dalla figura materna, che soddisfa sempre e subito i loro bisogni.
            Il padre non può defilarsi; si può divorziare dalla moglie, ma non lo si può dai figli. I danni provocati dall'assenza o latitanza paterna diventano visibili nell'adolescenza, momento più critico e delicato dello sviluppo umano.
            L'uomo che vuole diventare padre oggi, può godere di tutte le libertà nel gestire il proprio ruolo, ma non può ricalcare la figura del padre-padrone. Nessuno glielo consentirebbe, anzi verrebbe denunciato al tribunale dei minorenni per maltrattamenti morali.
            Ma quando si diventa padre?
            Un tempo si riteneva che si diventasse padre al momento della fecondazione, dando al ruolo sessuale un’importanza straordinaria: l'uomo mostrava la propria virilità e acquisiva potere nei confronti della madre e del nascituro; oggi si è convinti che i protagonisti sono solo due: la madre e il bambino, che sono autonomi e autosufficienti.
            Essere padre, madre o figlio significa essere in relazione con qualcun altro. Un padre non esiste in se stesso: un padre esiste solo in quanto esistono dei figli; nessuno di noi è padre o madre di per sé: un uomo è padre se c'è un figlio che lo fa essere tale.

 



            Un padre e una madre nascono quando nasce un figlio; in altre parole possiamo dire che, se è vero che sono un uomo e una donna a far nascere un figlio, è altrettanto vero, paradossalmente, che è il figlio a far nascere un padre e una madre.



            Entrare nella paternità è sinonimo di “dedizione”, è una nuova capacità: in primo luogo, divenire persona in grado di prendersi cura non solo di se stesso ma anche di un’altra creatura vivente; in secondo luogo, deve aiutarla a distaccarsi dalla madre, a diventare “persona” capace di scelte autonome, in grado di camminare da sola. E’ un continuo rimettersi in gioco, durante il quale è opportuno sforzarsi di comprendere le necessità del figlio che cresce, di sapersi adeguare ai tempi, senza rinnegare valori e principi validi, ma neanche assolutizzarli e mitizzarli.

Il passaggio da uomo a padre trasforma l’uomo in persona matura e con piena realizzazione di sé.
            I ruoli si ereditano e, infatti, ogni padre deve fare i conti con il suo essere stato figlio e con ciò che suo padre gli ha trasmesso. Non è possibile per un genitore riuscire a dare al proprio figlio ciò che non ha ricevuto, piuttosto si tende inconsciamente a restituire il proprio vissuto, lo stesso identico modello – combattuto magari per anni nel genitore, considerato inaccettabile – anche se può arrecare danno al proprio figlio e questo costituisce sempre un punto cruciale nell’ambito del passaggio generazionale.
            Cosa succede in questo caso?
            A tal riguardo, Aldo Carotenuto, nel suo libro “Integrazione della personalità”,  scrive: “Che i vissuti negativi dell’infanzia abbiano effetti e conseguenze durature e svolgano un ruolo enorme nel decidere del futuro sviluppo dell’individuo, è un dato ormai assodato. Un esempio per tutti è dato dagli studi condotti su genitori maltrattati, i quali hanno mostrato che una percentuale altissima di loro ha subito violenza o cure insufficienti nella propria infanzia”.

            Infatti, quando il padre non ha risolto i problemi personali con la propria autorità paterna, possono nascere gravi difficoltà emotive proprio nella fase di gioco e di crescita del figlio, momento in cui si ritrova ad avere lui stesso autorità e potere. Questa viene definita dalla letteratura la “cattiveria dei padri” i quali si ritrovano in posizioni di conflitto che possono acuirsi man mano che i figli crescono, quasi a voler rivendicare ciò che, un tempo, non erano riusciti ad avere dal loro padre. Nel rapporto figlio maschio-padre si verificano delle contraddizioni tra potenza e impotenza tale da far sentire nel bambino la spinta a diventare più potente.

Ma il figlio si trova da un lato a volersi sottrarre allo strapotere del padre per salvaguardare l’integrità dell’Io, dall’altro però deve sforzarsi di cercarne l’approvazione per sentirsi accettato.


            Spesso il padre impedisce al proprio figlio di fare delle scelte autonome e tende a progettarne la vita, cercando in lui più la realizzazione che avrebbe voluto per se stesso che quella autentica dei sogni del figlio.


 



Il ruolo della madre
 



            L’importanza del ruolo materno è ben interpretato dallo psicoterapeuta professor Masini che, nella sua dispensa “La famiglia”, dice: “La donna materna è il femminile maturato e divenuto adulto...Nel rapporto madre-figlio c’è un debito del figlio verso la madre che nessun programma di parità potrebbe fissare poiché è sostenuto da una relazione etica di cura che, nell’uomo, supera l’attaccamento biologico per diventare il primo e principale luogo di espressione dell’affettività. Nella maternità l’essere umano trova il compimento di sé nell’altro poiché dà dignità alla persona facendola sentire amata”.
            Essere madre è frutto di un’accettazione non scontata, che  vince la tentazione del rifiuto della “diversità”.
            La madre dà la vita, nutre, custodisce, protegge, tutela, fa crescere. Essa rappresenta l’amore incondizionato che con calore, tenerezza e sicurezza, attraverso baci, abbracci, cure continue, contatto fisico e affettivo consegna al figlio la fiducia e il piacere di vivere.
            Una buona madre è colei che istintivamente capisce ciò di cui ha bisogno il figlio sapendo trovare il giusto equilibrio e sapendo creare la giusta distanza tra lei e il figlio.
            Dalle ricerche condotte sulla relazione madre-figlio nella primissima infanzia, risulta che la madre riesce a favorire lo sviluppo della mente del bambino solo se soddisfa i suoi bisogni primari a piccole dosi, senza causargli grandi frustrazioni. Ad esempio, nel momento della poppata, i tempi d’attesa della richiesta del cibo - e cioè il tempo che passa dal pianto alla soddisfazione del bisogno - devono essere via via sempre più dilatati perché il bambino riesca a prendere coscienza  che l’oggetto desiderato è inserito in un contesto più ampio, lontano da sé e, quindi, a differenziare il Sé dal mondo.
            La mancanza di frustrazione renderebbe il bambino onnipotente, incline a strutturare una personalità narcisista per il fatto che ottiene tutto ciò che desidera nel momento in cui lo chiede; invece la troppa frustrazione, renderebbe il bambino scoraggiato e inibito.
Gli Autori distinguono una “madre sufficientemente buona” per istinto materno, da una “madre migliore”, cioè capace di aiutare il figlio a distaccarsi dalla sua immagine per approdare nell’individualismo, senza che ne soffra troppo. Non è, quindi, colei che tiene legato a sé il figlio impedendogli di lasciar emergere i propri sentimenti e neanche quella che non impone divieti per il timore di perderlo. Atteggiamenti che provocano nel bambino sensi di colpa, narcisismo patologico, mancanza di autostima, depressione e dipendenza.
            Come ci spiega la psicanalista Caroline Thompson nel suo libro "Genitori che amano troppo", l'incapacità di porre dei limiti e punizioni risiede nella difficoltà del genitore di avviare una buona separazione per paura di perdere l'amore del figlio che  diventa “ribelle” alle istanze del genitore, impotente nel farsi ascoltare.
            Nel reperire materiale informativo per il mio lavoro, ho trovato utile anche la lettura del libro della statunitense Jane Swigart Il mito della cattiva madre. L’autrice, laureata in letterature comparate e specializzata in psicologia clinica alla San José State University, si guarda dal costruire inutili teorie sul rapporto madre-figlio e prende a esempio le difficoltà quotidiane che non sono certo facili da gestire per una donna impegnata nei suoi ruoli, ma anche ricca di desideri e aspirazioni personali. Swigart esamina due modelli di madre: la Buona Madre, madre perfetta che, annullando se stessa, fa tutto per il bene dei figli; la Cattiva Madre, egoista e insensibile ai problemi dei figli. Entrambe le immagini sono false e stereotipate, ma influenzano il comportamento di ogni donna, addirittura prima ancora di diventare madre. Questi miti spingono a credere che le madri siano le uniche responsabili della “riuscita dei figli” e che i primi anni di vita di un bambino sono “i più importanti e formativi”.
            La Swigart analizza le realtà emotive della madre che alleva un figlio e afferma: “...i compiti diuturni che comporta l’allevare un bambino lasciano poco tempo o energia per la sublimazione di lotte competitive o l’espressione creativa... Allevare i figli può portare maturazione e saggezza a quelle madri che si sforzano di farlo meglio che possono... E’ identificandoci con loro che siamo in grado di immedesimarci e così di imparare molto su noi stessi. I bambini possono renderci più umani, costringendoci a una serie di mini-epifanie via via che passano attraverso le fasi dell’infanzia. Ma possono anche risvegliare la nostra propensione a essere ciechi verso le necessità e le diversità altrui. Paradossalmente la dolorosa evocazione del narcisismo, della sensualità, della crudeltà e dell’indifferenza, è essa stessa parte del processo umanizzante. Allevare i figli spesso provoca proprio ciò che dobbiamo imparare a padroneggiare, controllare e superare in noi stessi, per non fare loro del male”.

 


 



"Il bambino chiama la mamma e domanda: "Da dove sono venuto? Dove mi hai raccolto?". La mamma ascolta, piange e sorride mentre stringe al petto il suo bambino. "Eri un desiderio dentro al mio cuore."
(Tagore )

Nessun commento:

Posta un commento